True Mike Tyson
…All’inizio, durante i nostri primi fine settimana, Cus non mi lasciava nemmeno boxare. Una volta finito il riscaldamento con Teddy, ci sedevamo a chiacchierare. Lui mi chiedeva delle mie sensazioni, di cosa provavo, e mi parlava della psicologia del pugilato. Voleva conoscermi a fondo. Discutevamo degli aspetti spirituali della boxe. “Se non hai lo spirito di un guerriero, potrai anche essere grande e grosso ma non diventerai mai un vero pugile” diceva. Faceva discorsi piuttosto astratti, ma era convincente. Parlava la mia lingua. Anche lui veniva dai bassifondi ed era cresciuto in strada. Per prima cosa mi parlò della paura e di come superarla. “È l’ostacolo più grande all’apprendimento. Ma può anche diventare la tua migliore amica. È come il fuoco: se impari a controllarlo puoi usarlo per scaldare e cucinare, senza controllo invece brucerà te e la tua casa. Oppure come una palla di neve in cima a un pendio: puoi raccoglierla e scagliarla giù, ma se la lasci andare comincia a ingrossarsi, finchè diventa una valanga e ti schiaccia. Allo stesso modo, non devi mai permettere che la paura di sfugga di mano, o non riuscirai a raggiungere il tuo obbiettivo. O a salvarti la vita. Immagina un cervo che attraversa una radura. Al margine della foresta, l’istinto lo avverte di un pericolo in agguato, magari un leone di montagna. La natura lo ha dotato di un meccanismo di sopravvivenza, le ghiandole surrenali, che cominciano a pompare adrenalina nel sangue, accelerando il battito cardiaco e permettendo al corpo di compiere imprese di agilità e forza straordinarie. Abituati alla paura e sarai sempre all’erta, come un cervo che attraversa la radura. Credi di conoscere la differenza tra un eroe e un codardo, Mike? Bè, non riguarda ciò che provano. Sono le loro azioni a distinguerli. Eroi e codardi provano esattamente le stesse emozioni: ma è quello che l’eroe fa che lo rende un eroe, ed è quello che l’altro non fa che lo rende un codardo.” Era anche un fanatico delle asserzioni, quelle frasi positive che ci si ripete per autosuggestionarsi. Cus soffriva di una grave cataratta a un occhio e sosteneva che recitare come un mantra “miglioro sempre, ogni giorno e in ogni cosa” l’avesse quasi guarita. Mi fece ripetere all’infinito “sono il pugile più forte del mondo, nessuno può battermi. Il migliore. Nessuno può battermi.” Mi piaceva da matti. Adoravo sentirmi parlare di me stesso. Cus mi diede una strada precisa da seguire e un traguardo. Sarei diventato il più giovane campione dei pesi massimi della storia. Il suo nemico numero uno era Ronald Reagan. Se lo vedeva comparire in televisione, si metteva a urlare a squarciagola: “bugiardo! Bugiardo! Bugiardo! Bugiardo!”. Era fuori di testa. Parlava continuamente di chi avrebbe dovuto morire ammazzato. “I soldi vanno buttati dalla finestra. Sono la sicurezza, e per me la sicurezza equivale alla morte, quindi me ne sono sempre fregato di accumulare sostanze. Le cose che hanno valore non sono in vendita. Il denaro non mi ha mai attirato, ma la verità è che non ho mai scialacquato: i miei averi li ho dati a chi davvero ne aveva bisogno. Non lo considero uno spreco.” Era anche contrario all’idea di pagare le tasse a un governo di destra. Quando il suo debito col fisco raggiunse i duecentomila dollari, dichiarò la bancarotta. Il suo ingresso nel mondo della boxe è una specie di mistero. Un giorno, di punto in bianco, si era svegliato e aveva deciso: “sono un allenatore”. Dal nulla arrivò ad essere manager di pugili di alto livello. Poco dopo, però, arrivò la prima delusione. Un avvocato di destra, Roy Cohn gli soffiò Floyd Patterson. Il pugile si era recentemente convertito al cattolicesimo e Cohn lo aveva conquistato presentandolo al cardinale di New York. Cus non rimise mai più piede in una chiesa cattolica e da quel momento diventò sempre più paranoico. Sosteneva che avesse tentato di ucciderlo, gettandolo sotto un vagone della metropolitana. Smise di andare nei bar per timore che gli mettessero la droga nel drink. Arrivò al punto di cucire le tasche della giacca per paura che lo incastrassero, infilandoci degli stupefacenti. Aveva vietato a chiunque di entrare in camera sua, e posizionava dei fiammiferi tra lo stipite e la porta per accertarsi che nessuno lo facesse di nascosto. Se mi incrociava in corridoio sbottava: “che ci fai qui?” “ci abito, Cus”. Una notte, uno degli sparring partner suoi ospiti uscì di soppiatto per farsi un giro in città. L’indomani mattina Tom e io ci alzammo presto e scendemmo a fare colazione, come al solito. In salotto trovammo Cus sdraiato a terra, a strisciare come un marine, con il fucile in mano. Il tipo era tornato e aveva bussato alla finestra. Cus doveva averlo preso per un sicario assoldato dall’IBC. Noi ci limitammo a scavalcarlo e andare in cucina a prendere i nostri cereali. Cus era un generale, io il suo soldato. Ed eravamo pronti a dare battaglia. “il mio compito è liberarti strato per strato dai danni che ti ha inflitto la vita e che ti impediscono di crescere fino a sfruttare il tuo potenziale”. Ma era un processo doloroso. Io mi ribellavo, gli urlavo di lasciarmi in pace. La sua era una forma di tortura mentale. Se durante uno sparring con un tizio più grande si accorgeva che ero demotivato e rispondevo fiaccamente ai colpi martellanti dell’avversario, lui mi prendeva da parte costringendomi ad affrontare le mie paure. Era un perfezionista. Quando provavo al sacco le combinazioni che mi aveva insegnato lui stava lì a guardare. Poi nel suo accento del Bronx, commentava: “niente male, niente male davvero. Ma non è ancora impeccabile”. “Io non creo nulla. Scopro, svelo. Il mio compito è scoprire la scintilla e alimentarla. Alimento quella scintilla e diventa una fiamma; alimento la fiamma e diventa un fuoco. Alimento il fuoco e diventa una vampata ruggente.” Sapeva regalare perle di saggezza anche nelle situazioni più banali. Camille insisteva sul fatto che i ragazzi facessero la loro parte nei lavori domestici. Un giorno Cus venne a parlarmi: “sai, Camille ci tiene molto. Io me ne frego, ma credo che dovresti obbedirle. I mestieri ti faranno sentire un pugile migliore.” “che c’entra la boxe col portare fuori l’immondizia?” “compiere un dovere che detesti come se invece lo amassi è un ottimo esercizio per chi aspira alla grandezza.” Dopo quel discorso Camille non ebbe mai più bisogno di chiedermi di dare una mano. Cus mi aveva convinto di avere una missione da compiere. Dovevo allenarmi ogni giorno e pensare solo alla boxe, con una concentrazione fottutamente assoluta. Mi diede uno scopo nella vita. Era una sensazione che non avevo mai provato in passato, salvo quando progettavo un furto. Sapevamo entrambi di essere in corsa contro il tempo. Cus aveva settant’anni, non era certo un ragazzino, e aveva fretta di trasmettermi tutto ciò che sapeva. Mi ingozzava senza sosta di tutte le sue cazzate, mi ci imbottiva. A furia di sentirle ripeterle, se non sei un idiota le impari per forza. Diventai piuttosto abile come pugile, ma il mio sviluppo umano e mentale non teneva il passo con quello atletico. Era tutto incanalato verso un’unica meta: farmi diventare il campione mondiale dei pesi massimi. “Dio, vorrei avere più tempo da dedicarti”, diceva. Ero un invasato. Di sera restavo alzato fino a tardi, esercitandomi in quella che viene chiamata la shadowboxing. Mi sarei sentito una merda se non l’avessi fatto. Riuscire era questione di vita o di morte. E lo facevo anche per Cus. Aveva avuto una vita difficile, piena di delusione. Mi ero messo in testa di difendere l’ego e l’onore di questo vecchietto dalle origini italiane. Chi cazzo mi credevo di essere? Quando non mi allenavo, guardavo le riprese di incontri del passato, incollato allo schermo anche per dieci ore di seguito. Era il mio premio, nei fine settimana. Li guardavo da solo, in camera mia, fino a notte fonda. Alzavo il volume, e la cronaca rimbombava in tutta la casa. Le mie sessioni di sparring erano una guerra aperta. Prima che salissi sul ring, Cus mi faceva un discorsetto. “non trattenerti, dacci dentro. Metti in pratica tutto ciò che hai imparato e al massimo della velocità. Voglio che gli spezzi le costole.” Spezzargli le costole? Ma non si trattava di sparring? L’idea era di prepararmi per gli incontri veri e propri, quando avrei dovuto davvero puntare a spaccare le ossa dell’avversario. Ogni volta che mi trovava uno sparring partner adatto, voleva assicurarsi che mi offrisse un ottimo allenamento. Li pagava profumatamente. Ma questo non garantiva che restassero. Spesso capitava che arrivasse un tizio convinto di limitarsi allo sparring tradizionale per tre settimane. Dopo la prima sessione entravamo in casa e non lo trovavamo più. Il culo che gli facevo li lasciava talmente scioccati da non perdere nemmeno tempo a rifare le valigie. Quando succedeva, io e Tom salivamo dritti in camera a frugare tra la loro roba. Con un pizzico di fortuna, ci si poteva trovare una bustina di marijuana o un paio di scarpe del nostro numero. Il nostro modo di combattere non puntava solo ala vittoria, ma a far male all’avversario. Ne parlavamo per ore. Questa è la filosofia che mi istillò Cus. “starai trasmettendo un messaggio al detentore del titolo, Mike” mi diceva. “Lui ti starà guardando”. Ma il messaggio sarebbe arrivato anche ai manager, promotori, all’intero ambiente della boxe: Cus era tornato. Mi addestrai alla cattiveria. Andando a scuola, per la strada aggredivo i passanti. In cuor mio, sapevo di dovermi comportare così perché, se avessi fallito Cus, si sarebbe sbarazzato di me e sarei morto di fame. “Tu permetti alla tua mente di avere il sopravvento”. Nel suo codice segreto, significava: “sei un pezzo di merda. Non hai la disciplina necessaria per diventare un grande.” Il mio peso era sempre stato un problema per me. Ai miei occhi, ero grasso come un maiale, anche se a guardarmi nessuno l’avrebbe detto. Quando mi allenavo mi spalmavo il corpo di Albolene, una crema usata dagli atleti per tappare i pori, e per sudare e perdere peso indossavo una tuta di plastica che toglievo solo la sera prima di un bagno bollente. Cus mi stuzzicava a proposito. “ti è venuto il culo grosso. Cos’è, ti sei stufato Mike? È troppo dura per te? Credevi di venire qui a divertirti? Pensavi di vivere come a Brownsville dove passavi il tempo in giro a spassartela?”. A volte mi sgridava, e io non sapevo nemmeno perché. Mi aggrediva, la metteva sul personale. “non arriverai mai ai vertici, sei troppo infantile.” Dopo un po’ sbottavo: “vi odio tutti!” Cus mi stava facendo a pezzi. Criticava persino il mio modo di vestire. Durante le vacanze capitavano ospiti in casa, magari la sorella di Camille o qualcun altro. Indossavo un paio di pantaloni buono, la camicia, il panciotto; Camille mi aiutava a fare il nodo alla cravatta. Me ne stavo là, seduto tranquillo, con tutte le signore che dicevano “oh, Mike, come sei elegante.” Finchè arriva Cus. “perché ti sei conciato in quel modo? I pantaloni sono così stretti che ti si vedono le palle e il culo. Che cos’hai che non va?” Non usava mai insulti volgari, tipo “figlio di puttana”. Mi dava del “barattolo” e del “pezzente”. Nel gergo della boxe, però, equivaleva a bollarmi come un negro lurido e buono a nulla. Io piangevo come un lattante. Lui sapeva benissimo di ferirmi. Il suo atteggiamento era talmente contraddittorio che cominciai a dubitare del suo giudizio su di me, come pugile. Un giorno stavo uscendo dalla palestra con Tom Patti, e Cus dovette trattenersi un momento. Così saltai in macchina e mi nascosi acquattato sul sedile posteriore. “quando arriva Cus, digli che sono tornato a piedi. Poi chiedigli cosa pensa davvero di me” domandai a Tom, e lui acconsentì. Cus si mise al volante. “Dove diavolo è Mike?” “credo che voglia restare in città” rispose Tom. Sapendo che era mezzo sordo bisbigliai a Tom: “avanti, domandagli se secondo lui picchio duro”. “ehi Cus, dici che Mike picchia duro?” fece lui. “picchiare duro? Lascia che ti dica una cosa: i pugni di quel ragazzo sfonderebbero un muro di mattoni. Non solo picchia duro, ma è efficace. Può mettere KO un avversario sia col destro sia con il sinistro.” “chiedigli se mi ritiene in grado di diventare qualcuno” sussurrai io. Tom ripete la domanda. “Tommy, se Mike tiene la testa sulle spalle e si concentra sul suo obiettivo, diventerà uno dei pugili più grandi della storia, se non il più grande in assoluto.” Sentirglielo dire mi esaltò. Poi arrivammo a casa e, scendendo dall’auto, Cus mi vide accucciato sul sedile posteriore. “Tu lo sapevi che era qui, vero?” disse a Tom. “Non cercare di intortarmi. Lo sapevi eccome. Volevate farmi fesso!”
Mike Tyson True
“All’improvviso ero il campione del mondo, quindi tutti si aspettavano che fossi un uomo fatto e finito.
Invece ero soltanto un ragazzino di vent’anni.
Ed ero smarrito.
Senza nessuno a farmi da guida, mi sentivo naufrago della vita.
Alle prime luci dell’alba, mi guardai allo specchio con addosso quella cintura e mi resi conto che avevo compiuto la nostra missione.
Adesso ero libero.
Poi ricordai una frase scritta da Lenin: “la libertà è una cosa molto preziosa. Tanto preziosa che dovrebbe essere razionata”.
L’avevo letta da qualche parte nei libri di Cus, ed era un’affermazione che avrei fatto meglio a tenere bene a mente negli anni a venire”
Mike Tyson True